La riforma 2025 della cittadinanza italiana: ragioni di speranza per gli italo-discendenti
- Rodolphe Rous
- 25 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 27 giu

Fin dall’unificazione l’Italia ha aderito al principio dello ius sanguinis: è il sangue italiano, e non il luogo di nascita, a fondare la cittadinanza. Il Codice civile del 1865, poi la legge 555/1912, aprirono la strada alla trasmissione «senza frontiere» della cittadinanza; la legge 91/1992 ha confermato questo diritto soggettivo «perfetto», tutelato da una giurisprudenza costante della Corte di cassazione (Sezioni Unite 4466-4467/2009) secondo cui lo status civitatis nasce in via automatica e si perde solo con atto volontario.
Questa tradizione ha permesso a milioni di discendenti di emigrati – dall’Argentina a Montréal – di rivendicare il loro patrimonio identitario. I consolati italiani sono divenuti così il teatro di una ricerca spesso lunga, ma giuridicamente sicura: finché nell’albero genealogico compare un ascendente nato dopo l’Unità, il diritto alla cittadinanza resta intatto.
Il fulmine del decreto-legge 36/2025
Il 28 marzo 2025 il Governo ha adottato il decreto-legge n. 36/2025, convertito il 23 maggio nella legge 74/2025. Il testo:
limita l’acquisizione automatica ai nipoti di un italiano nato in Italia (massimo 2ª generazione);
priva retroattivamente della cittadinanza le persone nate all’estero il cui ascendente italiano più vicino è un bisnonno;
salvaguarda esclusivamente le domande già presentate entro la mezzanotte (ora di Roma) del 27 marzo 2025;
impone – al di fuori della parentela «diretta» – due anni di residenza effettiva in Italia per ricostruire il legame.
Mai, dal 1912, un governo aveva ristretto in modo tanto drastico la portata dello ius sanguinis.
Una riforma in equilibrio instabile
Il legislatore invoca il sovraccarico consolare e l’esigenza di ristabilire un «legame concreto» con la Penisola. Eppure, perseguendo tali obiettivi, ha ignorato diversi baluardi costituzionali ed europei già consacrati dalla giurisprudenza.
1. Lesione del diritto fondamentale di cittadinanza (art. 22 Cost.)
«Nessuno può essere privato… della sua cittadinanza». La perdita dello status civitatis deve essere individuale e motivata. Qui, la decadenza è automatica, senza procedimento né addebito personali.
2. Violazione dell’uguaglianza (art. 3 Cost.)
Due fratelli nati lo stesso giorno – uno a Brescia, l’altro a Buenos Aires – vengono trattati diversamente. Il luogo di nascita diventa un criterio discriminatorio all’interno del medesimo lignaggio.
3. Incompatibilità con l’art. 20 TFUE e la giurisprudenza europea
La Corte di giustizia (cause Rottmann C-135/08, Tjebbes C-221/17) esige un esame individuale e il rispetto della proporzionalità quando uno Stato sottrae una cittadinanza che comporta anche lo status di cittadino dell’Unione. La nuova legge elimina ogni valutazione caso per caso e colpisce retroattivamente.
4. Violazione del principio di irretroattività e dell’affidamento legittimo
L’art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale afferma che la legge dispone solo per l’avvenire. La Corte costituzionale ha più volte (sent. 87/1975) censurato norme che, senza un periodo transitorio serio, minano la prevedibilità del diritto.
5. Assenza di un termine ragionevole
Né la legge di conversione né la circolare applicativa concedono un lasso di tempo sufficiente per regolarizzare le pratiche pendenti. Questo «effetto sorpresa» è già stigmatizzato dalla dottrina: Bonato parla di «attentato alla fiducia delle comunità italiane d’oltremare».
Ciò che potrebbe cadere davanti alla Corte costituzionale
Il rinvio alla Consulta è quasi certo: comuni, tribunali e associazioni di discendenti stanno preparando questioni di legittimità. Due scenari sono i più accreditati:
Abrogazione integrale delle norme retroattive: la Corte potrebbe ripristinare il testo del 1992 salvando i diritti dei pronipoti.
Censura parziale con imposizione di un filtro proporzionato: mantenimento di un requisito di legame materiale (p. es. residenza o conoscenza della lingua) ma senza perdita retroattiva.
Considerata la giurisprudenza europea e i precedenti nazionali (legge 124/1988 sull’impiego pubblico annullata nel 1990 per analoga retroattività), la probabilità di una dichiarazione di incostituzionalità almeno parziale è elevata.
Perché non bisogna scoraggiarsi
Molti italo-discendenti provano già un senso d’ingiustizia, se non di esilio forzato. Tuttavia, diverse ragioni invitano ad agire piuttosto che a rinunciare:
I diritti cristallizzati prima del 27 marzo 2025 restano intangibili; ogni domanda protocollata, anche incompleta, è tutelata.
Una richiesta presentata oggi può essere “messa in sospeso” fino alla decisione della Corte costituzionale: se questa annullerà la riforma, la pratica riprenderà il suo corso secondo il vecchio regime.
La via giudiziaria è aperta: anche senza deposito consolare, l’azione innanzi al tribunale civile italiano consente di far riconoscere la cittadinanza, indipendentemente dalla nuova legge se dichiarata illegittima.
I riferimenti europei (CGUE) e la dottrina internazionale offrono un arsenale argomentativo solido; invocarli già in sede consolare rafforza il fascicolo.
La costruzione identitaria non si esaurisce con un decreto: archivi parrocchiali, atti di stato civile, cultura familiare costituiscono prove vive destinate a pesare domani dinanzi al giudice.
Consigli pratici immediati
Costruire o completare il fascicolo: atti di nascita, naturalizzazioni straniere, certificati di non-rinuncia. L’azione giudiziaria dura in media 18 mesi; iniziare oggi significa guadagnare tempo.
Presentare comunque la domanda, anche se il consolato fissa appuntamenti lontani: l’invio con raccomandata A/R o deposito telematico vale data certa.
Conservare ogni ricevuta: prova di buona fede e diligenza, essenziali per la futura giurisprudenza costituzionale.
Valutare la residenza effettiva in Italia per chi può: un soggiorno di due anni – studio o lavoro – già soddisfa i criteri restrittivi attuali e rinsalda l’ancoraggio culturale.
Considerare un’azione collettiva: diversi tribunali accettano la riunione di cause simili, riducendo costi e tempi.
Sguardo al futuro
La cittadinanza è un ponte tra generazioni; la legge 36/2025 ha suscitato un’ondata d’inquietudine, ma ricorda anche il valore concreto di questo legame. Nel 2012 l’Argentina riformò il proprio ius soli per poi fare marcia indietro davanti alle critiche costituzionali; nel 2019 il Belgio ammorbidì le regole sui binazionali dopo la sentenza Tjebbes. L’Italia non vive fuori dal diritto europeo: la pressione della CGUE e delle comunità all’estero potrebbe riportare la normativa verso un equilibrio meno restrittivo.
Per gli italo-discendenti, non è il momento di arrendersi, bensì di vigilare attivamente. Preparare il fascicolo, farsi assistere, restare informati sui ricorsi collettivi – sono tappe che trasformeranno la frustrazione presente in un riconoscimento futuro.
Conclusione
La riforma del 2025 segna una rottura con più di un secolo di apertura civica. Nata da un’esigenza burocratica, collide però con i principi costituzionali italiani ed europei. Il suo destino dipenderà dalla Corte costituzionale, dal dialogo con la CGUE e dalla mobilitazione delle comunità interessate. Non arrendersi significa anche onorare la memoria di chi, un secolo fa, lasciò la Penisola sperando in un futuro migliore per i propri discendenti.
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